Vercelli
Sacro Monte di Crea
Dove il viandante sorseggia una bevanda tonica tra i viali di Vercelli, porge timorosi ossequi all'abate di Lucedio, lascia correre lungamente il suo sguardo su colline e vigneti e infine con pazienza e lena s'innalza sino al santo monte di Crea
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Sulla sponda destra del fiume Sesia, nella parte orientale del Piemonte, sorge la città di Vercelli, oggi conosciuta ai più come la capitale europea del riso.
La sua fondazione risale al V secolo a.C., quando i Celti stabilirono un avamposto noto come "Wehrcelt" – letteralmente guardia (wehr) dei celti (celt): da qui la probabile origine del nome Vercelli. Secondo altre fonti, il toponimo compare in alcuni testi latini come "Vercellae", ovvero "veneris cellae", e indicherebbe la devozione ai culti pagani del popolo cittadino.
In alcune cronache Vercelli è anche nota come "Meropoli", dal nome stesso del suo fondatore: la leggendaria e sterminata città, di cui non v'è più traccia, si estendeva sulla sponda sinistra del fiume Sesia spingendosi fino a Borgo Vercelli. Fortificata e collegata attraverso tre ponti, avrebbe poi cambiato nome per volere di Re Beloisio, dominatore di queste terre.
Più sicuro e di epoca moderna il soprannome di "città delle otto ore": l'appellativo deriva da un importante fatto storico accaduto agli inizi del Novecento, quando Vercelli fu la prima città italiana ad ottenere per legge la riduzione dell'orario lavorativo giornaliero. Il traguardo fu raggiunto grazie a numerosi scioperi e proteste di mondine e braccianti, costretti a lavorare in condizioni invivibili nei terreni paludosi, falcidiati da malattie come malaria e tubercolosi: questi gruppi organizzati di lavoratori, chiamati "leghe di miglioramento contadino", riuscirono a conquistare il diritto alle otto ore lavorative nel 1907, con ben dodici anni di anticipo rispetto alla formalizzazione in legge per tutto il territorio nazionale.
Fondata dai Celti nel V secolo a. C., Vercelli diventa municipium romano nel 49 a.C.: la città si trasforma in un importante snodo stradale e vengono costruite infrastrutture quali acquedotti, bagni pubblici e teatri.
A partire dal IV secolo d.C., su impulso del vescovo Eusebio, il borgo diventa diocesi e centro di diffusione del cristianesimo in tutta la regione, in particolare del culto mariano della Madonna Nera a cui verrà in seguito dedicato il famoso Santuario di Oropa. Eusebio sarà successivamente canonizzato, diventando patrono di tutto il Piemonte.
Nel corso dei secoli successivi Vercelli gode di buona fama e cresce in importanza, diventando un rilevante centro culturale, nonché sede della prima università subalpina (lo Studium, fondato nel 1228); è inoltre la prima città italiana ad abolire la servitù della gleba. Le aspre contese fra guelfi e ghibellini ne segnano a lungo la vita finché non diventa signoria milanese nel 1335, per essere poi ceduta nel 1427 ai Savoia. Dopo l'annessione alla Francia nel 1798, nel 1814 torna definitivamente ai Savoia: nonostante le vicissitudini storiche, Vercelli ha saputo sempre mantenere la sua rilevanza economica e commerciale sul territorio grazie alla coltura del riso e alle esportazioni in tutta Europa.
Oggi le sue risaie sono anche luogo di turismo itinerante, specialmente su due ruote; Vercelli inoltre sorge su un'importante tappa della via Francigena, punto di incontro del percorso proveniente dal Monginevro e da Torino e di quello proveniente dal Gran San Bernardo, tra Aosta e Ivrea: la sua posizione, insieme alla bellezza dei suoi monumenti e delle storiche basiliche, ne fanno una meta turistica di grande interesse.
Fulcro della vita sociale, luogo di incontro e salotto buono di Vercelli, piazza Cavour si trova all'interno del centro storico: di forma trapezoidale, è pavimentata a ciottoli ed è circondata dai più antichi palazzi della città, tutti porticati e collegati tra di loro. Nota anche come piazza Maggiore, nel 1864 è stata intitolata a Camillo Benso Conte di Cavour, il quale ha svolto un ruolo importante nello sviluppo della città e dei territori circostanti. A lui si deve ad esempio la realizzazione del canale Cavour che, attraversando il Piemonte dal Po fino al Ticino, permette ancora oggi di irrigare l'immenso sistema di risaie che caratterizza questi luoghi. Al centro della piazza si erge un monumento in suo onore, che lo ritrae insieme a due statue allegoriche raffiguranti l'Agricoltura e il Commercio, i due ministeri che Cavour aveva diretto nel regno di Sardegna.
Sul lato nord della piazza svetta la torre dell'Angelo, così chiamata per alcune leggende che aleggiano intorno ad essa: si racconta che un angelo abbia soccorso una persona in procinto di gettarsi dalla torre, oppure abbia salvato dal crollo la torre stessa, costruita su basi non propriamente solide.
Non distante da piazza Cavour, un'altra torre cittadina è oggetto di credenze popolari: si tratta della torre del Broletto, la più antica di Vercelli. Si narra che intorno ad essa di notte si possano scorgere alcune fiammelle blu: sono queste le anime di personaggi illustri passati a miglior vita. Secondo la leggenda, se qualche celebre personalità dovesse notare uno spazio vuoto tra le fiammelle avrebbe la certezza che la sua ora è ormai giunta. Non c'è quindi da stupirsi se ancora oggi, ai piedi della torre, qualcuno per scaramanzia passeggi con passo svelto, lo sguardo basso e le mani sul volto.
Piazza Cavour ospita ogni settimana diversi mercati, antica tradizione giunta dal medioevo sino ad oggi. Il più caratteristico è quello del piccolo antiquariato - il "Barlafùs" - che attrae visitatori da tutta la regione e che si svolge ogni prima domenica del mese lungo viale Garibaldi, poco distante dalla piazza.
La maestosa balisica di sant'Andrea è il simbolo della città di Vercelli e rappresenta il suo monumento più importante. Eretta tra il 1219 e il 1227, è uno dei primi esempi di gotico italiano, in cui si fondono armoniosamente anche elementi in stile romanico lombardo. La facciata, rivestita in pietra verde di Varallo, è delimitata da due torri a cuspide, composizione poco frequente nel Nord Italia. Nata su modello dei complessi cistercensi, l'Abbazia ospita un chiostro con decorazioni rinascimentali e una bella sala capitolare. Sul capitello di una delle colonne che reggono la cupola, di fronte ad un leone, è scolpito un uomo dall'espressione enigmatica: non è stato possibile ricondurlo a nessuna figura storica ed è oggi noto come l'uomo che sorride.
Di fronte alla chiesa si può ammirare il salone Dugentesco, sorto come luogo di ricovero ed accoglienza per i molti viandanti e pellegrini che transitavano da Vercelli. E, sempre nei paraggi, il fianco di un edificio svela ai più curiosi una targa che recita un passo della Divina Commedia: Dante dedicò alcune righe dell'Inferno a questi luoghi, per celebrarne l'armoniosa cornice paesaggistica, rimarcando così l'importanza politica che la città rivestiva ai suoi tempi.
A spasso per il centro di Vercelli, a pochi passi dalla Basilica di S. Andrea, si può ammirare l'imponente cattedrale neoclassica dedicata a Sant'Eusebio. Il nucleo originale risale alla fine del IV secolo, quando Eusebio, primo Vescovo di Vercelli e del Piemonte, fa erigere una chiesa nell'area della necropoli ai margini della città, che viene poi sostituita da una basilica paleocristiana. La cattedrale subisce numerose ricostruzioni e ampliamenti nel corso dei secoli, ma conserva ancora oggi un prezioso crocifisso in legno ricoperto da una sottile lamina d’argento e oro risalente al X secolo, raro esempio di arte ottoniana.
Meno vistosa ma non priva di fascino, la chiesa di San Cristoforo si rivela un vero e proprio gioellino della città e nasconde una sorpresa al proprio interno: un vasto ciclo di affreschi - opera di Gaudenzio Ferrari, uno dei maggiori esponenti dell’arte rinascimentale italiana - riveste completamente le pareti della chiesa e regala al tempio il soprannome "la Cappella Sistina di Vercelli". L'edificio, risalente ai primi del Cinquecento, conserva al proprio interno una preziosa pala d'altare - la Madonna degli Aranci - su cui vi è dipinta una delle prime rappresentazioni pittoriche del violino.
Un altro luogo di culto di pregevole fattura è la sinagoga, risalente al XIX secolo. Spicca in particolare la bella facciata a bande bicolori bianche e azzurre in pietra arenaria, su cui si possono ammirare merlature e torrette con cupole a cipolla di richiamo mediorientale.
Un luogo sicuramente singolare è il Museo della Farmacia Picciòla, al civico 24 di via Galileo Ferraris, che racconta l'evoluzione della farmacia attraverso l'esposizione di mobili, oggetti e strumenti attraverso duecento anni di storia: gli appassionati possono trovare alambicchi, mortai, pestelli e una collezione di oltre duemila oggetti tra cui un inusuale coccodrillo imbalsamato appeso al soffitto dell'antico laboratorio. Il museo è visitabile solo su prenotazione: è raccomandato scrivere all'indirizzo carlo.bagliani@icloud.com per verificare le disponibilità e chiedere un appuntamento.
All'interno dell'antica chiesa di San Marco, oggi sconsacrata, sorge il Polo Espositivo ARCA, sede di mostre ed eventi di respiro internazionale. La struttura moderna ben si integra con lo spazio medievale, sia grazie ad una copertura in vetro che permette di ammirare le antiche volte a crociera sia per gli spazi laterali dove sono visibili alcuni affreschi recentemente recuperati. La chiesa risale al 1266 ed era una delle più grandi ed importanti della città: nel tempo, anche a seguito della soppressione napoleonica degli ordini monastici, ha subìto diverse modifiche sino a diventare un mercato coperto, snaturando del tutto la sua iniziale destinazione.
Infine, un edificio laico di notevole interesse è Palazzo Centori, dimora dell'omonima famiglia patrizia vercellese, realizzato nel XV secolo. Al suo interno conserva un affascinante cortile in stile bramantesco, unico esempio di cortile rinascimentale in tutto il Piemonte. Nei pressi del Palazzo si trova il cosiddetto "Volto dei Centori", un vicolo stretto e scenografico noto anche come "Contrada degli Spazzacamini".
Qui il percorso incrocia la Via Francigena, noto pellegrinaggio che da Canterbury (Inghilterra) conduce a Roma: dei 1800 km totali di cammino circa 900 attraversano l'Italia, a partire dal Colle del Gran San Bernardo.
Alle porte di Vercelli, tra risaie e pianure, si incontra Desana: ogni piccolo borgo ha una storia da raccontare e questo paese non fa eccezione.
Frequentato già tremila anni fa dalla tribù gallica dei Salli, divenne insediamento stabile intorno al II secolo a.C. e nel corso della sua storia fu più volte abitato e successivamente spopolato. Villa Deciana vide il suo massimo splendore nel secolo XV, più precisamente dal 15 settembre 1411: il conte Lodovico Tizzoni, intuendo le potenzialità del possedimento, si impegnò presso la corte di Teodoro II Paleologo a restaurarlo e fortificarlo, con l'intenzione di farne un vero e proprio Comune. Teodoro rinunciò a qualsiasi diritto sulle terre, vennero erette mura difensive, il paese divenne popoloso e al conte Lodovico fu concesso il dominio assoluto del territorio.
Nel 1510 Desana era già diventata una nota corte - frequentata da nobili e letterati - e al successore Lodovico II fu addirittura concesso il diritto di battere moneta: venne fondata l'officina monetaria, vera ragione per cui il paese è curiosamente famoso persino ai giorni nostri. La zecca di Desana era infatti specializzata nella riproduzione delle più diffuse monete europee circolanti all'epoca – una vera e propria fabbrica di falsari ante litteram che garantì ai Tizzoni considerevoli ricchezze – e anche oggi sui mercati numismatici si trovano i falsi di Desana, catalogati e scrupolosamente smascherati con piglio certosino.
Il malgoverno e le crudeltà dei Tizzoni, in particolare del conte Giovanni Agostino, spopolarono nuovamente il borgo: gli abitanti si rifugiarono presso i Savoia e dovettero attendere l'intervento del duca Emanuele Filiberto per ritornare alla legalità.
Oggi Desana è un quieto paese di provincia, terra di confine tra Vercelli e il Monferrato, e conta circa un migliaio di abitanti: merita una sosta il castello di Desana per uno sguardo alla facciata e alle torri cilindriche. Già documentato nell'anno 1003, distrutto e saccheggiato nel corso di numerose battaglie, nel 1833 il castello è acquistato da Rosazza Pistolet Vitale: nel 1840 viene ricostruito su un nuovo disegno, che lascia intatto l'impianto a quadrilatero con torri angolari, ed è tuttora dimora privata.
Tra Vercelli e Crescentino è possibile ammirare un paesaggio molto particolare caratterizzato da un'unica coltura, quella del riso. Durante il periodo della sommersione delle risaie - da fine aprile a inizio giugno - i campi si riempiono d'acqua e, illuminati dal sole, regalano indimenticabili giochi di luce e pittoresche geometrie.
Questi ampi terreni coltivati prendono il nome di grange: il termine ricorda la parola latina "granicum" (deposito o granaio, da cui il francese "granche" e lo spagnolo "granja"), ma il significato è ben più ampio e indica una unità stanziale abitativa organizzata per la coltivazione e l'allevamento.
Le grange nascono nel Medioevo per opera dei monaci cistercensi: nel 1098 Roberto di Molesme e altri 21 monaci ribelli - desiderando ritornare ad una vita più austera e autentica - decidono di allontanarsi dai confratelli e fondare il Nuovo Monastero; il luogo scelto per l'edificazione fu un isolato terreno ricco d'acqua e di boschi conosciuto come Citeaux: chiamato in latino Cistercium, questo campo solitario diede il nome anche al nuovo ordine religioso.
A differenza di altri monaci che conducevano vite di solitudine e preghiera, i cistercensi decisero di abbracciare con rigore la regola benedettina ora et labora che – accanto ai quotidiani doveri spirituali – imponeva almeno cinque ore al giorno di intenso lavoro fisico. Forti di una gestione interna estremamente organizzata, gli operosi monaci disboscarono e dissodarono terreni, incanalarono acque e resero coltivabili vaste aree in Italia e in Europa: a distanza di un solo secolo dalla fondazione dell'ordine si contavano già mille abbazie e oltre seimila grange, dalla penisola iberica fino alla Palestina.
Le grange diventarono veri e propri distaccamenti di monaci lavoratori che dipendevano da un'abbazia centrale, all'interno dei quali vi erano campi ed unità abitative, oltre che ricoveri per gli animali e magazzini per gli attrezzi e il raccolto. L'insieme degli edifici della grangia veniva spesso circondato da mura o da fossati per impedire furti o scorrerie. All'interno vivevano in modo stanziale gruppi di monaci chiamati conversi, ovvero staccati dal convento e dediti alle attività agricole; durante i periodi più intensi di aratura o mietitura venivano impiegati anche braccianti esterni, regolarmente salariati, chiamati mercenari.
Secondo le norme più antiche, le grange dovevano distare dall'abbazia centrale non più di una giornata di cammino, per consentire ai fratelli conversi di partecipare alle funzioni religiose domenicali e anche per una sorta di controllo da parte dell'abate sulla gestione dei suoi possedimenti: i primi nuclei abitativi infatti non comprendevano una cappella e la vicinanza all'abbazia costringeva i monaci a presentarsi di frequente al cospetto dell'abate. Il crescere dei possedimenti allungò però le distanze, e dunque si cominciarono a costruire cappelle anche all'interno delle grange, creando così veri e propri villaggi quasi autonomi; l'abbazia continuò comunque ad esercitare la sua supervisione, dato che la celebrazione quotidiana dell'Eucarestia poteva essere organizzata solo grazie al permesso del vescovo, impedendo alla cappella di entrare in competizione con le vicine chiese parrocchiali.
La gestione del territorio da parte delle comunità cistercensi, perfettamente organizzate e altamente produttive, rese le abbazie molto potenti e permise loro di vantare una netta superiorità nei confronti dei grandi proprietari terrieri dell'epoca; al contrario, questi ultimi si rivolgevano spesso alla manodopera dei monaci per la bonifica dei propri possedimenti, al fine di trasformarli in terreni produttivi.
Le grange rappresentarono uno strumento determinante nel processo di trasformazione di una zona incolta in terreno arabile: l'intera Europa medievale – un tempo coperta da acquitrini e boschi impenetrabili – cambiò per sempre il suo volto.
Un esempio di questa efficiente gestione agricola del territorio si ebbe con l'abbazia di Lucedio, nei pressi di Trino: i monaci che giunsero in queste terre dalla Francia bonificarono la malsana e inospitale pianura vercellese e introdussero la coltivazione del riso, che in poco tempo andò a sostituirsi al grano grazie al suo maggiore apporto nutritivo.
Nel corso degli anni i monaci accumularono possedimenti e terre a tal punto da diventare una vera e propria potenza interna al marchesato del Monferrato, con territori che si estendevano sia nel Vercellese sia sulle rive destra e sinistra del Po, le cosiddette “Grange di Lucedio”: Montarolo, Montarucco, Leri, Darola, Castelmerlino e Ramezzana.
Grandi cambiamenti e nuovi signori attendevano queste terre: nel corso della storia l'abbazia fu secolarizzata, i monaci trasferiti, i vasti terreni frammentati e ceduti a privati. Imponenti opere idrauliche realizzate con sacrificio e ingegno - come il Naviglio d'Ivrea e il canale Cavour – consolidarono definitivamente la vocazione risicola del Piemonte intero. Oggi il triangolo Vercelli-Novara-Pavia copre il 60% della produzione italiana, ma ci piace ricordare che è proprio nella piccola abbazia di Lucedio che è iniziata la storia del riso in Italia.
Apertura: visitabile saltuariamente su prenotazione
Del luogo - una sorta di sterminata reggia che è impossibile non notare - si hanno notizie a partire dal XV secolo. Darola era uno dei nuclei originari dell’antica abbazia di Lucedio insieme ad altre cinque grange: Leri, Montarolo, Castelmerlino, Montarucco e Ramezzana. Coltivato a riso dai monaci cistercensi, ancora oggi il paesaggio è caratterizzato dagli innumerevoli specchi d'acqua che, a perdita d'occhio, disegnano un'immensa scacchiera nelle pianure circostanti.
La tenuta di Darola è un affascinante esempio di architettura rurale che richiama la presenza dell'antica grangia grazie alla disposizione dei vari edifici che compongono la corte interna, tra i quali i resti di una torre a pianta quadrata - ancora ben conservata - che viene utilizzata per il passaggio da un cortile all’altro della tenuta.
Con il progressivo allontanamento dei cistercensi e dopo numerosi passaggi di proprietà tra famiglie laiche, le grange originarie dell’abbazia di Lucedio vennero cedute in proprietà al principe Camillo Borghese. Nel 1818 furono acquistate da una società costituita tra gli altri dal marchese Michele Giuseppe Benso di Cavour, padre di Camillo: non a caso nei dintorni si trova il paese chiamato Grangia Leri-Cavour, frazione di Trino.
Oggi Darola è una tenuta di oltre 400 ettari gestita privatamente e prosegue la sua attività secolare di produzione di riso di alta qualità.
SP34, 8 (Trino, VC)
Prezzo: 8,00 €
Apertura: ogni domenica pomeriggio visita guidata, solo su prenotazione
Il Principato di Lucedio sorge nel comune di Trino, un tempo circondato da terre paludose e incolte boscaglie denominate locez (da cui il nome dell'abbazia), oggi campi coltivati a riso, le cosiddette “grange”.
Cuore del Principato è il complesso abbaziale, molto antico: le sue origini risalgono al 1123, quando un gruppo di monaci cistercensi provenienti dal monastero di La Ferté a Chalon-sur-Saône - in Borgogna - ricevette in dono queste terre dal marchese Ranieri I del Monferrato, della dinastia degli Aleramici.
Coniugando fervore religioso e spirito imprenditoriale, i monaci iniziarono subito a bonificare le terre per metterle a reddito. Grazie alla loro capacità organizzativa - ma più che altro per eludere le imposizioni della Chiesa romana che impediva lo sfruttamento diretto delle terre - diedero tutto in gestione ai fratres conversi, fratelli laici che utilizzavano manodopera locale nei campi e versavano poi al monastero i tributi e una parte del raccolto.
L’abbazia di Lucedio crebbe in fama e potenza lungo tutto il Medioevo e - grazie alla guida di abati che seppero ben coniugare il senso religioso con la gestione degli affari - le proprietà terriere si estesero oltre il Monferrato, fino al Canavese, con possedimenti che abbracciarono ben sei grange: Montarolo, Darola, Castelmerlino, Leri, Montarucco e Ramezzana. La famiglia degli Aleramici godette di questa potenza riflessa e fece dell’abbazia un luogo sacro e venerato, tanto che molti marchesi decisero di essere tumulati all’interno della cinta del monastero.
Con la fine della dinastia degli Aleramici l’abbazia subì vicende alterne e passaggi di proprietà: prima i Gonzaga, poi i Savoia; nel 1784 il complesso venne infine secolarizzato e i pochi monaci rimasti vennero trasferiti a Castelnuovo Scrivia. L’arrivo di Napoleone, e la conseguente soppressione degli ordini religiosi da lui imposta, portò l’abbazia a passare ancora di mano, diventando un bene di scambio con Camillo Borghese, a parziale risarcimento di quanto requisitogli a Roma.
Caduto Napoleone, Camillo Borghese e i Savoia si contesero il possesso del monastero e delle sue terre, che vennero infine divise in vari lotti per accontentare i litiganti.
L’abbazia di Lucedio passò infine al Duca Raffaele de Ferrari di Galliera, al quale i Savoia conferirono il titolo di principe: nacque così il “Principato di Lucedio”, denominazione che appare ancora oggi sul portale d'ingresso della tenuta.
Nel corso dei secoli l’abbazia di Lucedio non ha mai perso la sua vocazione rurale ed imprenditoriale, e oggi tra le antiche mura possiamo trovare una moderna azienda agricola aperta al pubblico.
L’atmosfera che si respira richiama ancora fortemente il Medioevo e varcando il cancello d'ingresso ci si ritrova circondati dagli antichi edifici in pietra che componevano il complesso monastico. Ogni domenica pomeriggio si possono visitare, accompagnati da una guida locale, alcuni ambienti ben conservati come il chiostro, la sala capitolare e la sala dei Conversi.
Non è invece accessibile al pubblico la chiesa abbaziale, sorta sulle rovine della prima chiesa risalente al 1150 ca: nonostante qualche intervento per la messa in sicurezza, versa ancora in condizioni precarie. Cattura l'attenzione il suo campanile in stile gotico lombardo dall'insolita forma ottagonale; osservandolo dal basso è possibile scorgere nelle bifore dell’ultimo piano una sorta di impronta a forma circolare, dove venivano collocati dei bacini di ceramica che fungevano da faro per i pellegrini sulla via Francigena: riflettendo la luce del sole potevano essere visti da centinaia di metri di distanza e segnalavano la presenza di un rifugio per la notte.
All’interno del complesso abbaziale è presente una seconda chiesa, detta “del popolo”. Eretta nel 1741, era destinata a servire le funzioni religiose per le famiglie dei contadini e in generale per la gente comune di Lucedio: oggi è utilizzata come deposito agricolo e si può ammirare esternamente quale esempio di stile tardo barocco.
Sul retro sorge un’altra piccola chiesetta, detta di Santa Maria, di epoca settecentesca: la sua posizione è anomala rispetto alle norme costruttive del tempo dato che sorge a sud del complesso anziché a nord, dove sarebbe tra l’altro maggiormente illuminata e protetta dai venti. Considerata la pianta della chiesa, l'ingresso a sud richiama alla mente una croce capovolta, stuzzicando fantasie che nel corso dei secoli hanno alimentato ormai celebri leggende occulte.
L’abbazia di Lucedio porta con sé storie di mistero e leggende demoniache: passaggi segreti, abati mummificati, cripte infestate, un fiume sotterraneo e una colonna che piange, testimone di orrendi delitti.
Tutto nacque quando, nel 1684, una presenza malvagia fu evocata nei pressi del vicino cimitero di Darola e prese possesso delle menti dei monaci. Il demonio trasformò i religiosi in uomini avidi e dediti a soprusi, abusando del potere spirituale del quale erano investiti, ma anche di quello temporale per cui già da anni erano noti in quei territori.
La possessione demoniaca rimase a Lucedio fino al 1784 quando il Papa, in gran segreto, mandò un esorcista a liberare i monaci dal demonio, che venne finalmente intrappolato nelle cripte grazie ad un sigillo nascosto; i sotterranei furono murati e le spoglie di alcuni abati, mummificati e seduti su troni, vennero disposte in cerchio per sorvegliare e mantenere vivo l'incantesimo. Qualcuno narra che, quando l’abbazia venne secolarizzata, non tutti i monaci vennero trasferiti: una parte di loro rimase nelle segrete del monastero per proteggerlo per sempre dal maligno.
Testimone perenne di queste atrocità è la colonna che piange, una colonna in solido granito - che ancora oggi esiste all’interno della Sala Capitolare - da cui sgorgano piccole gocce d’acqua come lacrime di dolore. Il suo fusto infatti, a differenza delle altre colonne presenti, trasuda acqua in particolari momenti della giornata. Si tratta in realtà di un fenomeno riconducibile alla particolare porosità della pietra con cui è costruita, che assorbe l’abbondante umidità presente nel terreno per poi trasudarla lentamente - in un secondo momento - all’interno della sala.
Nei paraggi del Principato di Lucedio si trova l'antico cimitero di Darola, che giace in totale stato di abbandono: dalla strada si scorge un sentiero che conduce a quest'unica ed isolata macchia di vegetazione in mezzo alle risaie.
Poche le notizie certe intorno a questo luogo dimenticato: il toponimo Darola potrebbe derivare dalla Corte Auriola, una tenuta nei pressi di Trino posseduta dai marchesi del Monferrato; il cimitero e la chiesa, di stile tardo gotico, potrebbero essere stati costruiti verso le fine del 1500.
La storia del piccolo cimitero di Darola è strettamente collegata a quella dell'abbazia di Lucedio e - come per l'abbazia - anche attorno al cimitero aleggiano sinistri racconti: la leggenda vuole che fu proprio questo il luogo in cui, secoli addietro, il diavolo venne evocato.
Un tempo importante luogo di sepoltura, con lo spopolamento dei dintorni il camposanto perse di importanza, le salme traslate nei vicini cimiteri cittadini, le lapidi dimenticate e vandalizzate, ormai illeggibili. Oggi il luogo è sconsacrato da tempo, coperto dalla vegetazione e infestato da erbacce, anche se pare che le inumazioni continuarono fino agli anni sessanta del Novecento. L'unica testimonianza di antiche sepolture viene da due targhe poste sul muro esterno della chiesa che ricordano due gemelle, decedute nel 1868 a soli 15 anni, e un'altra lapide - forse il padre delle sorelle - scomparso nel 1876.
Nei pressi dell’abbazia di Lucedio si trova il santuario della Madonna delle Vigne: è una bellissima chiesa a base ottogonale, oggi sconsacrata e purtroppo abbandonata all’incuria, ma ciò che rimane di essa ha una sorta di fascino occulto da raccontare. Intorno al santuario, infatti, aleggia l’oscura leggenda che narra dello spartito del diavolo.
All’interno dell’edificio si trova un dipinto raffigurante un organo a canne su cui è riportato un misterioso spartito musicale: secondo la leggenda, suonando lo spartito in un verso si rinforzerebbe il sigillo di protezione contro il diavolo, suonato nel verso opposto - ovvero da destra verso sinistra e dal basso verso l'alto - si evocherebbe nuovamente il demone, liberandolo all'interno della chiesa.
Questa particolare leggenda forse si spiega interpretando i tre accordi iniziali, tipici accordi di chiusura che venivano suonati solo al termine delle composizioni liturgiche medievali: uno spartito dipinto al contrario da una mano demoniaca, una mano che ancora attende oltre lo specchio.
Apertura: chiuso temporaneamente per manutenzione
Nei pressi del paese di Trino ci si imbatte in un bosco che sembra galleggiare sull'acqua, una zattera verde posta al centro di sterminati campi coltivati a riso. È il Bosco delle Sorti della Partecipanza, una foresta di 600 ettari circa sopravvissuta alla trasformazione in risaia e giunta ai giorni nostri grazie ad un antico codice di gestione dei tagli e del prelievo legnoso che risale al 1275 che viene rispettato ancora oggi da tutta la comunità. Il suo nome - sicuramente inusuale - è strettamente legato allo stato di conservazione dell'area e al suo destino nel corso dei secoli.
Il bosco venne donato dal Marchese del Monferrato Guglielmo il Grande alle famiglie di Trino in comune proprietà (la Partecipanza), le quali lo amministrarono in modo collettivo perseguendo interessi comuni. La fruizione del bosco avveniva seguendo una regola precisa: il taglio del legname si teneva ogni anno in una zona diversa, in base ad una rigida turnazione. La zona scelta veniva suddivisa in aree minori, dette sorti o punti, che a loro volta venivano divise in quattro parti, chiamate quartaroli. Si estraeva poi a sorte un punto dove i partecipanti avrebbero potuto tagliare uno o due quartaroli, lasciando però interrati i ceppi in modo da favorire la ricrescita negli anni a venire. Da qui il nome del bosco, detto “delle Sorti della Partecipanza”.
Grazie a queste rigide regole di gestione, tramandate e rispettate ancora oggi, quest'area si è conservata come un'isola di biodiversità dove vivono e si riproducono specie animali che non potrebbero sopravvivere in un ambiente a monocoltura come quello delle risaie. A primavera inoltrata, la fioritura dei mughetti e la vegetazione rigogliosa lasciano a bocca aperta i visitatori.
È possibile anche che, in epoche precedenti la Partecipanza, questo bosco venisse considerato sacro, dedicato ad Apollo, e che pertanto fosse stato sempre protetto a fine di culto.
In ogni caso, la sua fama e le sue tradizioni sono giunte anche oltreoceano: un ingegnere della NASA visitò il luogo, memore dei racconti in dialetto piemontese del nonno emigrato in America, uno dei Partecipanti che - con orgoglio - da altre epoche ha traghettato intatta quest'isola verde fino ai giorni nostri.
Ai piedi delle colline del Monferrato e poco distante dalla riva sinistra del Po - circondato da paludi bonificate e terrazzamenti - si trova il comune di Trino, terzo per estensione territoriale all’interno della provincia di Vercelli. La coltivazione del riso svolge qui un ruolo fondamentale già a partire dal XV secolo e in questi luoghi il suolo è stato sfruttato con profitto sin dall’epoca romana, ma l'origine del borgo è precedente: la sua fondazione si deve probabilmente ai celti, da cui ne deriverebbe l’antico toponimo Rigomagus, ovvero “il mercato del re”. Dal II secolo a.C. Rigomago diventa sede di una mansio romana, ovvero un importante punto di sosta e ospitalità per i viaggiatori sulla strada che collegava Torino a Pavia; si trova traccia di questa tappa anche nell’Itinerarium Burdigalense, il più antico racconto di un cammino cristiano giunto sino a noi, opera di un anonimo pellegrino che nell'anno 333 partì da Bordeaux e raggiunse Gerusalemme per venerare il Santo Sepolcro.
A partire dal VI secolo il nome dell'insediamento viene cambiato in “Tridinum”: la leggenda racconta di come tre valorosi condottieri longobardi riedificarono la distrutta Rigomago con mura di cinta e tre castelli a scopo difensivo. Nel 1210 Trino, proprietà del Comune di Vercelli, si trasforma in borgo franco e, sottraendosi ai diritti feudali, inizia a redigere statuti e regolamenti propri. Le dominazioni a seguire furono tante: il paese passò dalle mani degli Aleramici ai Paleologi (1305), successivamente ai Gonzaga (1536) e infine ai Savoia (1631).
In epoca moderna, la lacunosa gestione del territorio da parte dei governanti e il debole polso della Chiesa trinese consentirono alla locale Confraternita del Santissimo Sacramento e Apostoli di assumere sempre maggior importanza e occupare numerosi luoghi di potere. Fondata nel 1451, la confraternita divenne un’istituzione molto influente grazie a rendite e donativi accumulati: ricadevano difatti sotto la sua amministrazione l'ospedale, il Monte di Pietà e persino il dazio cittadino. Nella prima metà del XVII secolo la Confraternita poteva essere considerata come una vera e propria azienda, la prima a Trino: l'edificio che ospitava la compagnia - tuttora visitabile al civico 33 di corso Italia - appare oggi alquanto modesto rispetto alle reali risorse di cui disponeva l'istituzione all'epoca.
Passeggiando tra le sue strade, l’abitato di Trino ci ricorda ancora oggi l'antica natura difensiva e medievale attraverso la geometria delle vie esterne - sorte al fianco delle vecchie mura - e di quelle più interne, gli stretti vicoli del centro.
Incastonato tra le vie cittadine, in Piazza Garibaldi, si trova Palazzo Paleologo, antica residenza signorile della dinastia degli Aleramici che dominò questo territorio dalla prima metà del X secolo. L’edificio venne ampliato nel 1152 sotto Guglielmo il Vecchio che qui stabilì la sua dimora. Nei secoli a seguire i suoi spazi vennero utilizzati come magazzini, botteghe e scuderie nonché guarnigioni militari, perdendo così l’antico fascino dei suoi saloni ben decorati. Nel 1686, dopo la revoca dell’editto di Nantes, il duca Amedeo II di Savoia diede avvio ad una serie di spedizioni militari per fermare il protestantesimo sul territorio: settecento valdesi vennero imprigionati a Palazzo Paleologo e soltanto 46 sopravvissero. Da questo triste episodio Trino passerà alla storia come "la tomba dei Valdesi".
Dal 2006, grazie ad un importante restauro, il palazzo è tornato a splendere nelle sue vesti signorili di dimora rinascimentale ed è visitabile saltuariamente durante le giornate del FAI.
Poco distante dall’abitato di Trino troviamo la chiesa di San Michele in Insula, risalente al periodo paleocristiano e fondata dal Vescovo Eusebio di Vercelli nel IV secolo. In origine semplice cappella in legno, poggiava tra due rami del fiume Po e questa sua natura bucolica compare ancora oggi nell’appellativo in insula, ovvero sull'isola. La primitiva struttura cadde in rovina a seguito di un violento evento non registrato dalle cronache, probabilmente un incendio o un saccheggio. Secondo alcune testimonianze scritte fu solo tra il X e l’XI secolo che la chiesa venne ricostruita e attorno ad essa sorsero botteghe e altri edifici.
La chiesa appare ancora oggi semplice e modesta, in esemplare stile romanico-altomedievale, e conserva al suo interno alcuni frammenti di affreschi del XII secolo tra cui una Crocefissione e una Vita di San Michele. Degno di nota anche il Crocifisso ligneo, il più antico della città, con un'inusuale capigliatura.
Attraversando il pianeggiante paesaggio trinese è difficile non notare la maestosa sagoma della centrale nucleare Enrico Fermi, uno dei quattro impianti nucleari - insieme alle strutture di Latina, Caorso e Sessa Aurunca - operativi in Italia tra gli anni'60 e gli anni '80.
Trino deve alcuni record mondiali alla centrale: inaugurato nel 1965 sul lato sinistro del Po, l’impianto detiene tuttora il primato mondiale di funzionamento ininterrotto a piena potenza per 322 giorni e fu inoltre il reattore più potente al mondo dal 1964 al 1966, quando fu surclassato dal francese Chinon A3.
La struttura venne definitivamente chiusa nel 1987 dopo il referendum che segnò la fine del nucleare in Italia ed è oggi visitabile con cadenza biennale grazie al programma Open Gate che consente a comuni cittadini di visitare gli impianti in corso di smantellamento: è raccomandata la prenotazione con largo anticipo.
La cucina del Monferrato gode di un'originalità difficilmente riscontrabile in altre zone del Nord Italia. Una prima motivazione si può trovare in una sorta di isolamento culturale, frutto del longevo Marchesato che ha retto per secoli le redini del territorio garantendo continuità di tradizioni e costumi. In secondo luogo, la conformazione del territorio stesso ha reso gastronomicamente unici questi luoghi: innanzitutto il paesaggio collinare che – a differenza delle grandi e dispersive aziende agricole sorte in pianura – ha costretto le genti a vivere i piccoli borghi dove la vita scorreva lenta e uguale a se stessa, e poi naturalmente i terreni e i microclimi che ancora oggi regalano eccellenti prodotti impossibili da crescere altrove.
Sopra a tutte le eccellenze, il primato spetta al fungo che da solo è stato in grado di regalare prestigio – e perché no anche un gradito ritorno economico – all'intero Monferrato: si tratta naturalmente del tartufo bianco, celebrato in numerose sagre e manifestazioni. Utilizzato per insaporire le più diverse preparazioni, nell'antipasto insalata di carne cruda può impreziosire un'altra celebrità piemontese: la carne battuta di razza Fassona. E rimanendo sui prodotti locali, la minestra di cardi e topinambur consente di assaggiare in un sol piatto il famoso cardo gobbo di Nizza Monferrato e il topinambur P.A.T. - prodotto agroalimentare tradizionale.
Tra i primi piatti posto d'onore per l'agnolotto, pietanza povera che consentiva ai parsimoniosi contadini di non sprecare gli avanzi di carne stufata. Questo raviolo quadrato, diffuso in tutto il Piemonte, in Monferrato assume peculiarità uniche: pur variando di paese in paese, il ripieno non utilizza carne di manzo bensì coniglio, volatili, persino asino. E celebri sono i ravioli dal plin, che nascono tra Langhe e Monferrato come variante del classico agnolotto: di dimensioni più piccole e chiusi con un pizzicotto – plin in dialetto piemontese – possono essere assaporati asciutti o in brodo. Tipici delle stesse zone sono i tajarin, sottili tagliolini di pasta fresca e abbondante tuorlo d'uovo conditi con sugo d'arrosto, di fegatini e frattaglie oppure con scaglie di tartufo come nella ricetta dei tajarin alla trifula.
Una menzione a sé merita la bagna cauda, vale a dire “salsa calda” in piemontese: servita come piatto unico o come antipasto, è una saporitissima crema di aglio, acciughe e olio in cui intingere verdure crude. Un tempo snobbata dai benestanti – che non ne gradivano il sapore troppo spiccato – veniva invece offerta alla fine della vendemmia come omaggio ai lavoratori. Oggi viene servita singolarmente in piccoli vasi di terracotta scaldati da una fiammella – i fojot - ma in altri tempi era un piatto conviviale da gustare in un unico tegame che veniva condiviso da tutti i commensali. L'antica ricetta la vuole accompagnata da verdure monferrine – cardo, topinambur e peperone su tutte – ma oggi viene servita con molti altri tipi di ortaggi crudi tra cui sedano, carote, cavoli e cipollotti. Altro piatto per palati forti sono le acciughe al bagnetto verde, in piemontese anciove al verd, che ricordano i secoli in cui le storiche vie del sale – che partivano dalla Provenza e intercettavano sul percorso il Monferrato – rifornivano l'entroterra non solo di sale ma anche di esotico pesce, rendendo unici i piatti della tradizione.
Tra i secondi piatti del territorio, la finanziera è così difficile da incrociare che s'è ormai ammantata di un'aura leggendaria. Piatto povero medievale – recupero della macellazione di pollame e bovini – fu così gradito alla borghesia da essere identificato con l'elegante giacca dei banchieri che lo consumavano appena possibile. Si tratta di un ricco intingolo: frattaglie di pollo – tra cui creste di gallo, fegatini e cuore – unito agli scarti del vitello e preparato con funghi e capperi; il marsala completa la ricetta con la parte umida e dolce. Più propriamente piemontesi, ma passibili di varianti locali, non mancheranno invece sulle tavole dei ristoranti il gran bollito misto alla piemontese – sette tagli di vitello piemontese, sette ornamenti e sette bagnetti tanto amati dal re Vittorio Emanuele II e da Cavour – e il fritto misto alla piemontese , piatto unico pensato per accontentare grandi e piccini nei giorni di festa: un fritto di carni e frattaglie di vitello serviti insieme al fritto dolce, ovvero frutta, verdura, polenta e persino amaretti.
I più golosi possono concludere le impegnative cene monferrine con gli amaretti di nocciola – detti nisulin – e la soffice torta di nocciole, entrambi ovviamente preparati con un'altra ghiotta eccellenza del territorio: la nocciola tonda gentile Igp. E ad accompagnare il caffè – che sia a fine pasto o a colazione – non possono mancare i Krumiri di Casale Monferrato, celebri biscotti creati dal pasticciere Domenico Rossi nel 1878: la forma ricorda il baffo di Vittorio Emanuele II, un omaggio al re d'Italia morto proprio quell'anno.
Oltre a borghi e castelli, nel Monferrato è impossibile ignorare - tra un paese e l'altro - l’opera dell’uomo che ha plasmato il paesaggio rurale. Di collina in collina è facile individuare la presenza costante di vigne; gli itinerari attraversano territori che nel corso dei secoli - nel caso della viticoltura piemontese si può parlare tranquillamente di millenni - sono stati modellati attraverso il duro lavoro. In questi territori risulta difficile segnare i confini geografici tra una zona di produzione e l’altra perché spesso coincidono, si sovrappongono, lasciano all’estro e alla capacità di vignaioli ed enologi la possibilità di produrre vini diversi, seguendo la tradizione oppure – a partire da questa - esplorando nuove strade per le future generazioni. A prescindere dalle scelte aziendali, si tratta di terreni destinati per vocazione - cioè da una particolare combinazione di fattori climatici, di natura del suolo, di varietà di vite e non ultima della testarda opera dell’uomo - alla produzione di una numerosissima varietà di vini di qualità.
E proprio la testarda opera dell’uomo si manifesta soprattutto per la presenza di vitigni che - oltre al Nebbiolo e il Barbera coltivati da tutti e da tutti conosciuti - è riuscita a selezionare varietà meno note ma che costituiscono l’eccezionale ricchezza di biodiversità del panorama italiano. In Monferrato è possibile allevare viti destinate alla produzione di vini Piemonte Doc - denominazione molto ampia che coinvolge le numerose zone della regione adatte alla viticoltura - in cui viene lasciata più libertà di scelta per quel che riguarda varietà di vitigni e tipologia di prodotti realizzabili. Merita una menzione la produzione monferrina di spumanti, sia con metodo classico - solitamente vinificato da uve Chardonnay e Pinot Nero - sia con metodo Charmat (anche detto “Martinotti”) a base di varietà bianche locali come il Cortese.
A conferma della sua predisposizione vinicola, il 22 giugno 2014 l'Unesco ha inserito il territorio nella lista dei beni Patrimonio Mondiale dell’Umanità. “I paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe-Roero e Monferrato” è un sito seriale che include – oltre alle colline che ospitano quattro celebri vitigni e al Castello di Grinzane Cavour – anche il cosiddetto “Monferrato degli infernot”. Sono, questi ultimi, delle peculiari stanze sotterranee, grotte domestiche scavate nella viva pietra da cantoni, un particolare tipo di roccia arenaria caratteristica del territorio. Oggi gli infernot - utilizzati tradizionalmente come cantine in cui conservare il vino grazie alle ideali condizioni di temperatura e umidità - sono preservati con cura, quali preziosa testimonianza di quell'industriosità appannaggio del cosiddetto sapere comune.
Tra gli edifici storici meglio conservati e più scenografici di tutto il Monferrato, il castello di Camino svetta maestoso sulla sommità d'un colle, accanto all’abitato sottostante la cui antica storia risale a insediamenti romani e poi germanici.
Il castello sorge in epoca successiva, intorno all’anno mille, come una delle più importanti fortezze difensive dell’alessandrino: una struttura solenne che domina strategicamente il paesaggio, svettando con la sua torre gotica alta oltre quaranta metri.
Se la costruzione ha inizio sotto l’episcopato di Asti, è solo intorno al 1300 che viene scritta la storia del castello: il marchese Teodoro Paleologo, spinto da gravi difficoltà economiche, concede il castello ai fratelli Tommaso e Francesco Scarampi, noti banchieri e mercanti di Asti, che ne fanno la dimora di famiglia per secoli, fino al 1952. Successivi ampliamenti nel corso del tempo e vincoli costruttivi dovuti alle ondulazioni del terreno conferiscono al castello l'aspetto odierno, caratterizzato da un'inconsueta pianta irregolare.
Come ogni rispettabile castello, anche il castello di Camino ha una storia di fantasmi da raccontare, ben riassunta dal sarcofago - tuttora visitabile nel cortiletto interno – che ritrae il conte Scarampo Scarampi mentre stringe saldamente la sua testa con la mano sinistra.
Leggenda narra che nel 1494 il conte Scarampo Scarampi, accusato di furti e incendi compiuti nelle vicinanze, dopo un assedio durato due mesi venne catturato dalle milizie di Costantino Arianiti Comneno, governatore di Casale Monferrato. La marchesa Camilla, alla cattura del marito, uscì dal castello tramite un passaggio segreto e raggiunse Casale implorando la grazia. L'eroico tentativo fu vano: il conte era già stato decapitato e alla notizia Camilla si gettò dalla torre del castello, togliendosi la vita.
Da allora pare che si possa sentire un lamentoso pianto provenire dall’alto della torre, ma non solo. Si dice infatti che sia stato visto più volte un uomo camminare tra le mura tenendo la sua testa tra le braccia, e qualcuno sostiene di aver visto entrambi gli spettri passeggiare tra le torri merlate, l’uno accanto all’altra, scambiandosi sguardi d'amore.
Se i racconti di fantasmi non spaventano si può soggiornare una notte nel castello, per averne conferma o smentita; per i meno coraggiosi si può avere un assaggio di storia e mistero grazie all’amaro del Castello, prodotto dai vigneti circostanti con un’antica e segreta ricetta.
Al confine settentrionale del Monferrato - circondato da verdeggianti alture tutelate come parco naturale dal 1980 - svetta il Sacro Monte di Crea dall'alto dei suoi 455 metri. Alle pendici del rilievo giace il grazioso borgo di Serralunga, che si snoda sul crinale d'una collina, mentre la sommità custodisce - nascosta tra boschi, sentieri e vigneti - la Via Sacra che ha reso questi luoghi meta di pellegrinaggio religioso e patrimonio dell'umanità Unesco.
Secondo la tradizione Sant'Eusebio, fuggendo dalla Terra Santa e dalle persecuzioni degli eretici ariani, intorno all'anno 350 approdò ai piedi delle Alpi recando con sé tre statue della Madonna. Attorno ad una di queste, sulla cima di un colle già consacrato a divinità pagane, fu eretto un primo oratorio dedicato a Maria. Nell'XI secolo il crescente flusso di pellegrini convinse il re d'Italia Arduino ad ampliare il modesto luogo di culto trasformandolo in una piccola chiesa affiancata da un convento di frati agostiniani.
Uno dei primi documenti ufficiali in cui si menziona Santa Maria di Crea risale al 1152, con la cessione della chiesa all'influente monastero di Vezzolano: furono proprio questi canonici a incentivare la crescita spirituale e artistica di questi luoghi, seguiti nei secoli successivi dai monaci lateranensi con l'aiuto dei devoti signori del Monferrato, inizialmente i Paleologi e successivamente i Gonzaga. Nel 1589 - con l'appoggio dei regnanti e della comunità locale - il priore Costantino Massino decise di impreziosire il luogo sacro con un itinerario mariano ispirato al Sacro Monte di Varallo, ossia un percorso religioso punteggiato da cappelle e romitori in cui sostare per una preghiera o una meditazione sui Misteri del Rosario.
La magnificenza del Sacro Monte di Crea si affievolì nel corso del XVIII secolo, fin quasi a spegnersi. La canonica e l'abbazia furono soppresse nel 1798, i santi luoghi furono dapprima abbandonati, successivamente devastati e saccheggiati dalle incursioni dell'esercito napoleonico: l'intero Sacro Monte, compresi chiesa e convento, fu venduto all'incanto nel 1809. La definitiva donazione dell'intero complesso alla Chiesa e le sollecite cure dei frati francescani - subentrati dal 1820 nella gestione delle strutture - hanno conferito al Sacro Monte il suo aspetto odierno grazie a restauri e abbellimenti, durati sino agli anni Venti del Novecento, che hanno restituito al santuario e alle cappelle il loro antico splendore.
Il Sacro Monte di Crea è stato dichiarato dall'Unesco Patrimonio Mondiale dell'Umanità nel 2003, insieme ad altri otto Sacri Monti di Piemonte e Lombardia. Oltre alla chiesa di Santa Maria Assunta, al convento e agli edifici convertiti in luoghi di accoglienza per i pellegrini - non mancano infatti bar, ristoranti e camere in affitto - il parco ospita la cosiddetta Via Sacra, un itinerario devozionale da percorrere a piedi che culmina sulla sommità del colle.
Alle iniziali quindici cappelle incontrate lungo il cammino - costruite nel 1589 sul modello del Sacro Monte di Varallo e dedicate ai Misteri del Rosario - si aggiunsero in corso d'opera altre otto cappelle dedicate al martirio di San Eusebio e alla vita di Maria. Il percorso fu completato con la costruzione di cinque romitori che ricordano al pellegrino momenti salienti della vita dei Santi, tra cui San Luca e San Francesco. Le decorazioni degli edifici, principalmente statue in terracotta policroma e dipinti, furono realizzate da artisti italiani e stranieri tra cui spiccano i nomi dei fratelli Wespin (i Tabacchetti), di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo e di Giovan Battista della Rovere (il Fiamminghino). Agli importanti lavori di restauro avvenuti nel corso dell'Ottocento presero parte invece, tra gli altri, Leonardo Bistolfi e Antonio Brilla che decorarono le notevoli cappelle XVI (salita al Calvario) e XVIII (Crocefissione).
Ma è senza dubbio al termine del quieto sentiero alberato, proprio sulla cima del monte e circondato da incantevoli panorami, che si trova l'edificio più suggestivo della Via Sacra: la ventitreesima ed ultima cappella, dedicata all'incoronazione di Maria in Cielo e meglio conosciuta come la Cappella del Paradiso. Sicuramente tra le più antiche dell'intero complesso, questa cappella è stata restaurata nel settembre del 2021 e rappresenta il vero cuore del Sacro Monte: oltre trecento statue - angeli, santi e martiri - onorano la Madonna assunta in Cielo e incoronata dalla Trinità. L'attimo è solenne, Maria è circondata da una folla festante di cardinali e beati, suore e frati. Un'ingegnosa struttura mantiene le statue sospese al soffitto, a sua volta decorato da cori di angeli esultanti: l'elaborato e sontuoso complesso risulta di grande impatto scenico ed emotivo.
Prezzo: gratuito
Apertura: 07:00-12:00 14:00-18:00
La tradizione vuole che il maestoso edificio sia stato costruito sul luogo in cui Sant'Eusebio eresse il primitivo oratorio alla Madonna. Di certo la chiesa, voluta da re Arduino, esisteva già ai tempi delle Crociate: lo testimoniano documenti e cessioni del XII secolo, ma soprattutto frammenti di arte romanica oggi posizionati sui pilastri delle navate.
Ampliata e abbellita nel corso dei secoli dai Marchesi di Monferrato - Guglielmo VIII Paleologo alla fine del Quattrocento e Vincenzo I Gonzaga alla fine del Cinquecento - la chiesa conserva l'impianto romanico a tre navate con volte a crociera rialzata . La facciata in stile barocco, in cui risalta il pregevole mosaico dell’Assunzione della Madonna che ancora oggi si può ammirare dal sagrato, risale invece al 1735. Gli interni conservano pregiate opere d'arte sacra e una ricca collezione di ex voto, ma è nelle due cappelle dietro l'altare maggiore che sono custoditi i veri tesori del santuario.
La cappella di Santa Margherita di Antiochia, dove per un periodo furono accolte le reliquie dell'omonima santa, espone due tra gli affreschi più importanti di tutta l'arte rinascimentale piemontese: la Madonna in trono e il martirio della Santa, entrambi opera del misterioso Maestro di Crea.
La cappella della Madonna protegge invece il più prezioso tesoro del Sacro Monte, la leggendaria statua della Madonna nera di Crea, che si narra sia stata realizzata dall'apostolo San Luca e qui portata da sant'Eusebio nel 350 d.C. La sua reale provenienza resta ignota: nonostante i moderni studi abbiano datato l'immagine al XIII secolo è ormai certo che i pellegrinaggi ed il culto risalgono ad un periodo che precede l'ufficiale datazione scientifica. L'opera - una piccola statua della Madonna con Bambino ottenuta da un unico blocco di legno - ha perso la patina di colore scuro durante i restauri del 1981, smorzando in parte il fascino della popolare e suggestiva "Madonna bruna".
Ai piedi del sacro Monte di Crea si delinea la zona di produzione del Grignolino del Monferrato Casalese Doc, un vino che recentemente riscuote sempre più successo tra gli appassionati, costantemente alla ricerca di prodotti di nicchia.
Il Grignolino: un rosso rubino dai riflessi granati che diventano aranciati con un maggiore affinamento, in botte di legno nel caso della “Riserva”. Il gusto ricorda l’erbaceo fresco, note di frutta rossa matura ma senza raggiungere le note di confettura. In bocca risalta una discreta acidità ed una leggera nota astringente, legata ai tannini ceduti dai vinaccioli - i semini - detti “grignòle” in astigiano, di cui questa varietà è ricca e da cui secondo la tradizione prende il nome.
Ristorante Il Paiolo
location_on Corso Giuseppe Garibaldi, 72 — Vercelli (VC)
Prezzo add_circleadd_circleradio_button_unchecked call +39161250577
Ristorante rustico e familiare, allestito in una sorta di casa privata, offre piatti della tradizione a prezzi corretti.
Ristorante Vecchia Brenta Vercelli
location_on Via Morosone, 6 — Vercelli (VC)
Prezzo add_circleadd_circleradio_button_unchecked call +393333206132 jamboard_kiosk www.ristorantevecchiabrenta.it
Molto noto in città, offre piatti della tradizione piemontese e vercellina tra cui la tipica panissa. Si raccomanda la prenotazione in anticipo.
Taverna & Tarnuzzer
location_on Piazza Camillo Cavour, 27 — Vercelli (VC)
Prezzo add_circleadd_circleradio_button_unchecked call +39161253139 jamboard_kiosk www.pasticceriatavernaetarnuzzer.com
Nel centro storico di Vercelli, dal 1889 questo locale storico propone squisite colazioni, dolci artigianali e pasticceria salata.
Pasticceria Follis
location_on Corso Libertà, 164 — Vercelli (VC)
Prezzo add_circleadd_circleradio_button_unchecked call +39161251191 jamboard_kiosk www.follis.it
Dal 1904 in questa tradizionale pasticceria si possono acquistare golosi dolci tipici di Vercelli, tra cui gli speziati biscotti Bicciolani e la torta tartufata ricoperta da fragili onde di cioccolato.
Nuovo Bar Ronsecco
location_on Piazza Vittorio Veneto, 8 — Ronsecco (VC)
Prezzo add_circleradio_button_uncheckedradio_button_unchecked
Sosta ideale per un panino, una birra o un piatto caldo.
La Perla di Trino
location_on Piazza Audisio, 6/a — Trino (VC)
Prezzo add_circleadd_circleradio_button_unchecked call +391611859170
Ristorante e pizzeria: buone materie prime a prezzi ragionevoli.
Il Rustico di Solonghello
location_on SP9, 36 — Solonghello (AL)
Prezzo add_circleadd_circleradio_button_unchecked call +393887957806 mail info@ilrusticodisolonghello.it
Sincero circolo sociale con ristorante e bar.
Di Crea
location_on Piazza Santuario, 7 — Serralunga di Crea (AL)
Prezzo add_circleadd_circleradio_button_unchecked call +39142940108 jamboard_kiosk www.ristorantedicrea.it
Il ristorante è proprio di fronte al Santuario di Crea. Marta e Davide - i due giovani e bravi chef - gironzolano per la sala presentando di persona i piatti della tradizione piemontese che vengono serviti: agnolotti, bolliti e persino la mitologica finanziera. Le camere, essenziali, sono gestite dalla curia e hanno prezzi calmierati per pellegrini e viandanti.
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